Cosenza: E' ORA DI ALZARE LA TESTA

Bisogna cominciare ad alzare la tresta, ma non per guardare il pennone del nuovo ponte e delle opere faraoniche ed inutili

Cosenza -

Continuano a stordire i cittadini e l’opinione pubblica con roboanti proclami sulla necessità di realizzare grandi opere pubbliche per il bene del nostro territorio; continuano a raccontare frottole sull’esigenza di far ripartire l’economia attraverso l’apertura di maxi cantieri; continuano a raccontare alla nostra gente che il solo modo per rendere europea la nostra città sia devastarla con ingenti colate di ferro e cemento.

La verità è che continuano a nascondersi dietro un dito, la verità è che molte persone, quelle dotate di un intelletto proprio, a queste stronzate non abboccano più.

Sanno benissimo, ed i fatti sono li a dimostrarlo, che sul nostro territorio le grandi ed inutili opere quali il parcheggio sotto piazza Bilotti, la metrotranvia, l’ovovia, il nuovo stadio, il ponte di Calatrava sono il metodo più facile per accaparrarsi i finanziamenti della comunità europea, intascarsi bustarelle, lavare denaro sporco, favorire le consorterie di amici costruttori e palazzinari, preparare la nuova ondata speculativa sulla nostra città.

La verità sta tutta qua. Nessuna filantropia muove l’agire dei nostri governanti se non l’obiettivo di arricchirsi ed ampliare i propri bacini clientelari.

La verità è che nel nostro paese, ma più in generale in ogni società incentrata sul profitto, la valorizzazione del mondo delle cose è direttamente proporzionata alla svalorizzazione del mondo umano.
La verità è che in un paese come il nostro dove finanche le emergenze e le tragedie diventano oggetto di speculazione (terremoti, emergenza casa, migranti e rifugiati), figurarsi quale possa essere il metro di valutazione per l’ordinario. Figuriamoci quale possa essere il rispetto per il lavoro e per i lavoratori. Se tutto ruota sulla centralità del dio denaro, la vita di un operaio è tranquillamente sacrificabile sull’altare del profitto.

Dopo gli scandali sulle infiltrazioni mafiose nel cantiere per la realizzazione di piazza Bilotti, dopo l’accordo sulla realizzazione della metro che con molta probabilità nel gioco del “do ut des” tra comune, regione e Aterp potrebbe portare allo sgombero dell’occupazione abitativa di via savoia, è notizia di poche ore fa della morte di un operaio sul cantiere del ponte di Calatrava.
Un operaio morto dopo quattro mesi di agonia in seguito ad una caduta dall’impalcatura del cantiere. Una morte che la ditta per la quale l’operaio lavorava a nero, senza alcun contratto e tutela ha cercato di insabbiare, raccontando di una fantomatica caduta da un albero. Una morte che sa di beffa perché nel tentativo di insabbiare l’accaduto, l’operaio anziché essere condotto di corsa presso il pronto soccorso dell’ospedale è stato accompagnato a casa ritardando notevolmente i soccorsi che con ogni probabilità avrebbero potuto salvargli la vita.

Questa vicenda è la cartina di tornasole della considerazione che in questo paese i nostri bravi imprenditori, avallati dalle scelte legislative di politici e governanti, hanno nei riguardi del lavoro e dei lavoratori. Nella nostra bella italietta dove ogni giorno le tv ed i giornali ci ubriacano con numeri truccati sullo stato dell’occupazione, sulle ricette salvifiche proposte dal job acts, sulla necessità di fare sacrifici e tagliare le spese (per la sicurezza sul lavoro, la sanità, l’istruzione), lo stato dell’arte sulla condizione del lavoro ci dipinge invece un quadro completamente capovolto.

Una miseria ed una povertà dilaganti che riguardano non solo chi vive senza lavoro, ma anche quelle fasce sociali precedentemente garantite ed ora colpite dalla morsa della crisi. Una precarietà che è diventata il paradigma del rapporto di lavoro (al di là della forma contrattuale), di uno sfruttamento sui cantieri, nei campi, nelle officine che sembra la riproposizione della condizione proletaria della prima rivoluzione industriale di fine ottocento. Di moderne schiere di lavoratori specializzati che, nella speranza di un’occupazione “stabile” vivono di stage, tirocini non retribuiti, o costretti a sbarcare il lunario nei call center, nella grande distribuzione, nel commercio, per due spiccioli.

Questa è la condizione del lavoro in Italia, nella terza potenza industriale europea, nel paese dove il numero dei morti da lavoro sfiora cifre da guerra, nel paese dove il ministro del lavoro versa lacrime di coccodrillo e poi innalza a quasi 70 anni l’età pensionabile, dove si invitano i giovani a non inviare curriculum ma a giovare a calcetto, dove si introduce il lavoro gratuito e volontario, dove un porco come Briatore dipinge i giovani italiani come pastasciuttari svogliati e vagabondi, dove i padroni giocano a fare i capitalisti evadendo tasse o insabbiando capitali, campando di agevolazioni e sgravi fiscali, mentre un lavoratore dipendente può trovarsi licenziato da un minuto all’altro, sfrattato da casa se non riesce a coprire la rata del mutuo o dell’affitto ed essere sbattuto in mezzo ad una strada a calci in culo senza alcuna garanzia.

Se questo è il rispetto per il lavoro ed i lavoratori non meravigliamoci delle morti sui cantieri, della povertà dilagante nei nostri quartieri, delle persone sempre più numerose che mendicano per strada, non meravigliamoci perché saranno fenomeni destinati a moltiplicarsi sempre di più se non diamo un taglio netto a questo stato di cose, se non individuiamo le cause ed i responsabili di questa situazione, se non rovesciamo il senso di oppressione che ci hanno calato sulla testa, se non capovolgiamo gli attuali rapporti di forza di questa moderna lotta di classe che al momento stanno conducendo e vincendo i ricchi.

Per quanto possa essere utile e di supporto, esprimiamo tutto il nostro cordoglio e la nostra solidarietà alla famiglia dell’operaio morto. Ma in piena franchezza, siamo stanchi di dover piangere i nostri fratelli morti sui cantieri, o lasciati morire per strada perché gli ospedali negano loro le cure, o perché e ambulanze non rispondono tempestivamente al soccorso domandando prima il colore della pelle, o schiacciati dalle ruote di un camion dietro ordine del padrone.

E’ ora di rovesciare il tavolo e riprenderci quanto ci spetta.

E’ ora di alzare la testa ma non a guardare il pennone del ponte.